martedì, novembre 29, 2005

football, please


Avete presente la sensazione che si prova quando, casualmente, ci si imbatte in qualcosa che si pensava di aver smarrito ? E' un attimo, è una miscela di incredulità e felicità ? Ecco io, questa sera, ho provato tutto questo ritrovando questo articolo pubblicato da Repubblica il 23 maggio 2004.
E' stato, quindi, scritto prima degli eventi del luglio 2005 che hanno colpito Londra. Probabilmente da allora l'atmosfera londinese è cambiata, ma forse non più di tanto. Mi sembra, in ogni caso, interessante riproporlo oggi, proprio nella settimana in cui il calcio italiano scopre il razzismo (?).

Londra - C'è la squadra degli albanesi e quella dei giamaicani, la squadra degli indiani e quella dei sauditi, la squadra dei russi e quella dei brasiliani, la squadra degli inglesi e quella degli europei continentale, oltre ad almeno un paio di formazioni di tutte le razze ed altrettante soprannominate semplicemente "la squadra del pub": inteso come il bar sotto casa. Ogni domenica mattina, armati di palloni e borsoni sportivi, invadono tutte insieme Hackney Marshes, ex zona paludosa dell'East Side di Londr, dove sorgono, uno accanto all'altro, otto campi da calcio. Il terreno di gioco è qui e là spelacchiato ma le porte sono a normadi regolamento e c'è perfino uno spogliatoio. Il pubblico di mogli, figli, fidanzate, parenti, amici e sostenitori siede sull'erba tutto intorno, l'arbitro fischia l'inizio (o meglio: lo fischiano contemporaneamente in otto) e il campionato dilettanti più multietnico del modo può cominciare. "Le Nazioni Unite del footbal", lo ha definito l'altro giorno il Guardian, dedicandogli un lungo servizio: "Un microcosmo della multietnicità e multiculturalità della capitale", scrive il quotidiano londinese.
Naturalmente lo sanno tutti che a Londra, fin dai tempi dell'impero britannico, convivono tante razze. Ma il fenomeno cresce a ritmo indiavolato: dieci anni fa i bianci anglosassoni erano l'80 per cento della popolazione della città, oggi sono scesi al 70 per cento e si prevede che in meno di un decennio i bianchi saranno una minoranza nelle scuole cittadine. A Londra convivono sessanta nazionalità diverse, si parlano trecento lingue, si professano tutte le eligioni della terra. "Non è più la capitale del Regno Unito, ormai è la capitale di tutte le culture e le razze del pianeta", afferma il Financial Times. Lo stesso discorso, certo, si può fare per NEW York. Ma a New York ogni comunità etnica vive rinchiusa nel proprio ghetto: invece a Londra, con qualche eccezione (i pakistani a Brick Lane, gli arabi Edgware road), tutti vivono mescolati con tutti. "Il matrimonio inter-razziale, qui, è la norma", ama dire il sindaco Ken Livingstone. Ciò non significa che sia scomparso il razzismo: l'armonia razziale che qualunque visitatore nota nelle prospere strade del centro non viene necessariamente replicata nei quartieri di perifieria, dove esistono tensioni e disordini. Eppure basta poco per rendersi conto della (relativamente) pacifica multietnicità della capitale. Basta passeggiare in uno dei parchi cittadini. Basta passare qualche ora nella sala arrive dell'aereoporto di Heatrow. Oppure trascorrere una domenica mattina a Hackney Marshes. C'è una squadra tutta di neri dei Caraibi (gli Hackney Down) e una che di neri ne schiera solo tre (i Three Compasses). C'è una squada tutta di nigeriani (i lions) e un'altra tutta "urban mix", miscela urbana di razze diverse (un po' come l'Inter o il Real Madrid, per intendersi: ma quelli li pagano profumatamente per andare d'accordo tra di loro). C'è una squadra di sauditi, yemeniti, marocchini, palastinesi e egiziani. C'è una squdra tutta di asiatici dell'Estremo Oriente e una tutta di bianchi inglesi che sembrano appena uscita un pub (e che probabilmente ci rientreranno presto appena terminata la partita). la squadra prima in classifica è l'Eureka, nove giganti neri e due bianchi. Il calcio più spettacolare, però, lo gioca la Shkodra, chiamato genericamente dagli avversari il "club degli albanesi". L'allenatore, Ardian Duka emigrato (forse fuggito) a Londra nel 1999 dal Kossovo, dissente. "Non è vero che i miei giocatori sono tutti albanesi", dice. "Il paese da cui vieni non ha nessuna importanza, l'unica cosa che conta è come tratti la palla. Se vedo qualcuno che gioca bene lo invito a giocare con noi. Non chiedo a nessuno di che nazionalità o religione è. In squadra abbiamo cristiani, musulmani, cattolici. Si gioca insieme, alla fine ci si stringe la mano e via, arrivederci a domenica prossima".
Avrebbe fatto parecchio comodo, una filosofia simile, nel macello dell'ex Jugoslavia, o in Ruanda o sui molti fronti del Medio Oriente. Ma è sicuramente più facile diffonderla qui, nel crogiuolo razziale di Londra, che nel resto del mondo. Come sembrano lontane, impalpabili, quasi irreali, le torture di Abu Ghraib, le guerre di religione, gli scontri tra civiltà, visti dall'isola felice di Hackney Marshes, dagli otto campi di calcio del campionato dilettanti più multietnico della terra.

1 Comments:

Anonymous Anonimo said...

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Best Regards,
Shire

6:41 PM  

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